La Bellezza e i Fedeli d’Amore
- Shabahang
- 23 feb 2019
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 28 nov 2021
Tra mistica islamica ed ermetismo
Quando cerchi Dio, Dio è lo sguardo dei tuoi occhi. Jalāl ad-Dīn Rūmī

Se riflettiamo sul fatto che il concetto di Bellezza, quella vera, quella “inutile”[1], può forse essere paragonato unicamente allo stupore e all’intima meraviglia che possiamo cogliere in un’improvvisa intuizione, in un’inaspettata rivelazione, è chiaro che il senso di un argomento del genere viene ampiamente limitato, se non addirittura svilito, anche dal solo tentativo di parlarne attraverso un linguaggio che si discosti da quello simbolico dei mistici e dei poeti. Come procedere dunque? Come possiamo tentare di avvicinare questa Bellezza che è allo stesso tempo ispiratrice di passione, espressione del divino nella manifestazione, ricordo e malinconia di un indefinito luogo dell’anima, via per la gnosi?
L’anima dei grandi poeti, come quella dei mistici e dei grandi iniziati, è sempre stata necessariamente un po’ più integra, o almeno un po’ meno malata di quella dei comuni mortali ed essi l’hanno utilizzata come uno strumento per suonare melodie di simboli. La poesia è bella perché anzitutto stupisce. Ci sussurra qualcosa d’inaspettato, di folgorante, di abissale. E può lasciarci storditi così come infocarci l’animo. La poesia scavalca le nostre barriere razionali perché parla direttamente al cuore, e nel cuore risiede il centro sottile capace di superare la parziale e frammentata “descrizione del mondo” creata dall’ego e di aprire gradualmente la nostra percezione alla dimensione trascendente, universale, unitaria[2], consentendoci di gettare uno sguardo oltre i contorni della forma sensibile, oltre il velo della realtà apparente.
Se quindi la poesia, che è di per sé bellezza, viene utilizzata per celebrare la Bellezza stessa come via d’accesso alla dimensione del sacro, ecco che arriva ad innescarsi una sorta di circolo virtuoso il cui scopo è esattamente quello di creare le necessarie condizioni interiori affinché possa aver luogo un vero e proprio risveglio spirituale.
Le radici di questo peculiare modo d’intendere la poesia - che in occidente influenzò notevolmente la tradizione trobadorica occitana e che in Italia verrà esaltata dalla cerchia dei cosiddetti poeti stilnovisti[3] - vanno però ricercate in Medio Oriente, e in particolare nell’antica Perside, dove il grande poeta e mistico shī’ita Rūzbehān Bāqlī Shīrāzī[4] per primo definì i principi che costituirono una sorta di implicito manifesto dei “Fedeli d’Amore” (khawāss al-mahabba[5]) d’oriente: innanzitutto egli era convinto che per poter indagare realtà di ordine superiore fosse necessario superare la forma essoterica del dogma fondamentale dell’Islam, il tawhīd, il principio alla base del concetto di unità e unicità di Dio. Un tale superamento, che corrisponde a una radicale metamorfosi della coscienza del fedele, avrebbe come principale risultato quello di consentirgli di stabilire un rapporto diretto con la dimensione spirituale e sarebbe ottenibile solo dopo lo strenuo combattimento interiore che attraverso un processo di “sublimazione”, porta la nafs ammarā, l’anima imperiosa, dagli appetiti mutevoli, a trasformarsi nella nafs motma’yanna, l’anima pacificata di chi trova l’amicizia con Dio, ovvero di colui che, pur rimanendo fisicamente nella manifestazione, acquisisce una coscienza teofanica[6]. La coscienza di tipo teofanico, infatti, è esattamente ciò che sancisce il passaggio dal tawhīd essoterico al tawhīd esoterico: l’Essenza divina, gli Attributi divini[7] e le Operazioni divine arrivano allora a convergere in un nuovo rapporto d’identità dove le Operazioni divine vengono percepite come teofanie che manifestano a loro volta gli Attributi i quali sono essi stessi identificabili con l’Essenza.
Per Rūzbehān, così come per Ibn ’Arabī[8], si può pervenire alla coscienza teofanica non rigettando la realtà visibile e sensibile ma prendendo gradualmente consapevolezza del fatto che essa rappresenta un velo che dovrà infine essere trasformato in specchio, o meglio, in uno specchio teofanico (mir’āt-e tajallī).
Possiamo quindi riagganciarci al tema centrale della bellezza affermando che da questa prospettiva si arriva a definire un nuovo modo di intendere la relazione tra la bellezza increata, archetipica e la bellezza sensibile, sicuramente più simile alla concezione platonica che a quella cristiana. La bellezza è, per Rūzbehān così come per tutti i sufi, attributo divino e teofania per eccellenza e poiché l’Essere Divino si manifesta al proprio fedele in una teofania commisurata al suo essere, in Lui preesistente fin dal principio, la capacità di cogliere la Bellezza all’interno del quaternario è assimilabile alla capacità del soggetto di riconoscere Dio nei suoi attributi e allo stesso tempo anche un indice per commisurare il suo avanzamento spirituale. Quando si raggiunge uno stato in cui l’anima è finalmente pacificata, o “guarita” come direbbero gli alchimisti, essa diventa lo specchio attraverso cui l’Essere Divino si rivela a sé stesso, diviene cioè il mezzo attraverso il quale si risolve il paradosso dell’identità, seppure nella differenza imposta dalla manifestazione fisica, di Colui che si rivela e di colui a cui si rivela. In altre parole: pur rimanendo di fatto uomo tra gli uomini, sul piano spirituale il fedele è divenuto parte attiva del Progetto universale e strumento efficiente della continua creazione dell’Essere Divino il quale provvede a disporne secondo necessità[9].
Secondo Rūzbehān, l’esperienza dell’amore umano verso un essere di bellezza è inoltre, tra tutte le esperienze, quella più adatta a sperimentare l’identità con il divino. Evidentemente si tratta di un amore che non ha nulla a che vedere con la passionalità e gli istinti carnali dell’amor profano ma che si manifesta piuttosto come una forma di commozione, di profonda estasi che l’anima avverte al disvelarsi della bellezza divina in un “essere di bellezza”. Se quindi, come ci ricorda Corbin, il tawhīd esoterico afferma l’identità tra l’Essere Divino e la triade amore-amante-amato, per Rūzbehān solo l’esperienza dell’amore umano per un essere di bellezza può condurre a sperimentare una tale verità in quanto è unicamente al culmine della perfezione di questo amore che può aver luogo l’epifania in grado d’illuminare e reintegrare l’anima del fedele.
Tale concetto risulta centrale anche nella famosa opera del grande poeta persiano Neẓāmi-ye Ganjavī[10] intitolata Layla e Majnun, dove quest’ultimo, eroe dell’amore estatico, completamente avvinto dall’immagine interiorizzata di Layla si convince di essere egli stesso l’oggetto del suo amore, tanto che se gli si domandasse il proprio nome risponderebbe: “Layla”. Questo perché nella visione di Neẓāmi, così come in quella di Rūzbehān, la bellezza di Layla, dell’amata, non è un qualcosa di altro, di differente rispetto alla bellezza dell’Essere Divino ma ne costituisce piuttosto l’epifania.
Per poter sperimentare una tale situazione e fissarla in uno stato, è ovviamente necessaria una totale trasfigurazione del sentimento amoroso attraverso uno sforzo individuale e un combattimento spirituale senza tregua, tuttavia è proprio nell’amore umano che il cercatore può rinvenire le tracce che conducono all’amore divino.
Molti altri celebri autori persiani, tra cui spiccano le figure di Ahmad Ghazālī, Awhadoddīn Kermānī e il già citato Neẓāmi, possono a buon diritto essere annoverati tra i seguaci della religione d’amore ma Rūzbehān, nella sua più grande opera intitolata Lo svelamento dei segreti[11](Kashf al-asrār), volle evidenziare una questione capitale che fino ad allora era rimasta celata: per lo shaykh di Shīrāz, infatti, la Visione di Dio non allontana dalla creatura in quanto nella visione della bellezza di quest’ultima si vede direttamente, senza soluzione di continuità, la Bellezza universale dell’Essere Divino.
Colui che ha raggiunto un tale grado di consapevolezza ha portato a termine il lungo e faticoso percorso di ricongiunzione con il proprio Angelo e, come scriveva un discepolo di Ibn ‘Arabī, su di lui “è discesa la Sakīna[12], la Quiete; è stato illuminato dalla luce dello stato di certezza, in Dio ha trovato la pacificazione dall’inquietudine”.
Rūzbehān, inoltre, non formulò mai alcuna dottrina che non fosse basata sulla sua personale esperienza e dimostrò sempre un’eccezionale lucidità nel riconoscere il sottile confine che separava gli eventi immaginali vissuti in uno stato di visione da quelli ordinari vissuti nella normale coscienza di veglia. Stando agli scritti a noi pervenuti grazie all’instancabile opera del già citato Corbin, si può tra l’altro affermare che la sua vita spirituale fu interamente caratterizzata da una presenza pressoché costante di questa visione in grado di elargire il dono della teofania[13], la quale è concessa nel e per mezzo del mundus imaginalis, dove il divino si manifesta come «un’immagine che entra in uno specchio». Tuttavia, anche la teofania è allo stesso tempo un velo e ciò che viene chiamato la prova del Velo: «l’Essere Divino si manifesta come per liberarsi da esso e Lo si cercherà quindi al di là del Velo», fino a provare quella “follia dell’inaccessibile” di cui parla Rūzbehān. «Al contrario, si uscirà vittoriosi dalla prova nel momento in cui il velo sarà divenuto uno specchio, ed è dunque in questo specchio che si deve guardare e non altrove dal momento che ciò che vi appare è invisibile altrove». La contraddizione è superata: la teofania, il volto di bellezza, non distoglie dalla Bellezza increata ma, al contrario, la rivela. Quando la creatura si dissolve, o meglio, si purifica fino a diventare specchio, non è più l’Essere Divino ad essere contemplato dalla creatura ma, grazie allo sguardo su di essa, è l’Essere Divino a contemplare sé stesso. Se comprendiamo questo, comprendiamo ciò che per Rūzbehān significò la religione d’amore corrispondente alla teofania della Bellezza. Il concetto, del resto, dovrebbe risultare piuttosto familiare agli studiosi di Alchimia per i quali la Manifestazione non è che parte integrante di un Unicum dove la separazione imposta dalla specificazione non rappresenta che una situazione transitoria. Diventare Alchimista, manipolare consapevolmente il Fuoco Segreto al fine del Progetto, significa in un certo senso diventare quello specchio attraverso il quale lo Spirito Universale, fonte della Luce, può ricongiungersi efficientemente al proprio riflesso impresso nel quaternario. In termini ermetici, quindi, potremmo forse spingerci ad affermare che diventare Alchimisti equivale a superare la prova del Velo di cui ci parla Rūzbehān. Anche in termini quantitativi il parallelo potrebbe apparire sensato[14]: lo shaykh racconta infatti di come, in ogni epoca, siano presenti solamente sette Abdāl, sette saggi che hanno avuto successo nella prova del Velo e grazie all’azione dei quali la Manifestazione e la vita terrestre possono continuare ad esistere[15]. Essi, ignorati dalla massa degli uomini incoscienti, sono gli occhi dell’Essere Divino attraverso cui Egli contempla sé stesso e attraverso i quali «guarda il mondo in ogni ora della notte e del giorno». Se dunque questo sguardo venisse meno, se non ci fossero più questi esseri che sono lo Sguardo celeste grazie al quale l’Essere Divino conosce il mondo, ciò determinerebbe la fine del mondo stesso, ovvero la chiusura di quella fenditura, di quel varco, di quel chaos necessario affinché lo Spirito sia libero di muoversi tra i piani e per cui gli Alchimisti, al pari degli Abdāl, devono incessantemente operare affinché possa rimanere aperto.
Fonti
Henry Corbin, Nell’Islam Iranico – Aspetti spirituali e filosofici, Mimesis, 2019
Andrea Zucconi, Guido Buffo, L’albero della Vita, Mimesis, 2020
www.wikipedia.com
Note
[1] Nel senso che non se ne può fare un banale uso pratico. [2] Dimensione a cui spesso ci riferiamo con il termine Verità. [3] Il Dolce Stil Novo, conosciuto anche come Stilnovismo, è un importante movimento poetico italiano sviluppatosi tra il 1280 e il 1310 a Firenze. Il suo iniziatore fu il bolognese Guido Guinizzelli ma al movimento aderirono artisti del calibro di Dante, Petrarca e Cavalcanti. [4] Nato a Fasa nel 1128 e morto a Shīrāz nel 1209. [5] Rūzbehān definì con questa espressione araba che letteralmente significa “devoti all’amore” coloro che aderirono alla sua scuola. La traduzione fedeli d’Amore è stata proposta da Henry Corbin anche per sottolineare l’affinità con gli omonimi iniziati dell’epoca di Dante. [6] Un tale concetto si ritrova in maniera molto simile in Alchimia e segna il passaggio, tutt’altro che banale o scontato, da praticante dell’Arte ad Alchimista. L’operazione che conduce alla sintesi del Mercurio Comune avrebbe infatti sull’operatore l’effetto di “guarirne l’anima” e di ripristinare così un canale di comunicazione diretto con lo Spirito Universale. [7] Gli attributi divini (sifāt) sono coeterni a Dio ma senza che si possa alterare l'unità di Dio («né Lui né altro da Lui», affermano i teologi musulmani sunniti) sono (per quanto riguarda quelli "personali", ossia nafsiyya): la vita, la scienza, la potenza, la volontà, l'udito, la vista e la parola, cui una parte del pensiero teologico sunnita aggiunge la persistenza. [8] Muhammad ibn ʿAlī ibn Muhammad ibn al-ʿArabī (Murcia, 1165 – Damasco, 1240) è stato un filosofo, mistico e poeta arabo. La sua opera ha influenzato molti intellettuali e mistici sia orientali sia occidentali. Alcuni studiosi ritengono che egli abbia in qualche misura influenzato anche Dante e San Giovanni della Croce. È conosciuto in Occidente come Doctor Maximus e in alcuni paesi islamici con i titoli di Muḥyī al-Dīn ("Colui che rivivifica la religione") e di al-Shaykh al-Akbar ("Il sommo Maestro"). Anche Henry Corbin non esita a definirlo "Uno dei più grandi teosofi visionari di tutti i tempi". [9] Tale necessità è chiaramente da riferirsi al Progetto e alla dimensione universale, non al fedele e al piano individuale. [10] Gäncä, 1141 – 1209. [11] Tale opera, redatta originariamente in arabo sottoforma di un vero e proprio diario spirituale, rappresenta un documento di eccezionale potenza immaginifica dove Rūzbehān narra al lettore la sua vita interiore, i suoi sogni e le sue visioni. Secondo Corbin, non ci sono opere paragonabili a questa in Oriente fatta eccezione per un documento simile scritto dal celebre sufi dell’Asia centrale Najmoddīn Kobrā o, in Occidente, per il Diarium Spirituale di Emanuel Swedenborg. [12] Termine arabo simile all’ebraico Shekinā, originariamente utilizzato per indicare lo spirito della pace che discende su Maometto e sugli altri fedeli durante la loro marcia sulla Mecca. [13] Si tratta della stessa visione che fu rifiutata a Mosè e concessa a Maometto. Per questo motivo il profeta dell’Islam è considerato dai sufi come il Sayyed-e ‘ashiqān, ovvero il “principe dei Fedeli d’amore”. [14] Si veda quanto scritto da Paolo Lucarelli in merito al numero di studiosi di Alchimia destinati a diventare dei veri Alchimisti. [15] Corbin ci informa che grazie alla visione che lo condusse a meditare sulle sette stelle dell’Orsa Maggiore, Rūzbehān prese consapevolezza del fatto di essere lui stesso nel novero dei sette Abdāl della sua epoca.
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